Un weekend di full immersion nelle classiche "monumento" del pavè in occasione della Paris-Roubaix cicloturistica: dalle pietre di Arenberg a quelle del Grammont, dal Museo della "Ronde" ai muri del Giro delle Fiandre, passando per i leggendari settori di pavè dell' "Inferno del Nord".
Mors tua, vita mea
“Che stronzata!” [Bernard Hinault]
Chiunque starà pensando che per correre la Parigi-Roubaix tanto sani di mente non bisogna essere: già il ciclismo è uno sport di fatica, se ci si mette poi anche la penitenza di correre sui sassi allora si passa al puro masochismo.
L’unico modo per amare tutto questo è essere dei malati di classiche del nord, avere cioè una smisurata e perversa passione per le corse monumento del pavé – Fiandre e Roubaix su tutte. Solo così si può veramente apprezzare e capire il significato di pedalare da queste parti: ci vuole il giusto mood, il giusto approccio, la giusta determinazione e la giusta testardaggine, perché solo chi è più duro delle pietre ne esce vincitore.
Anche perchè alla Roubaix non si guarda in faccia a nessuno: per arrivare in fondo incolumi bisogna armarsi di tanta, tantissima cattiveria. Cattiveria nell’affrontare il pavé, nel maltrattare la propria bicicletta, e pure verso gli altri ciclisti che ti stanno attorno. Perché se stai davanti tieni il tuo passo e segui la linea migliore, e tocca semmai agli altri pedalare sullo sporco e sulle buche, sul fango e sulle pozzanghere. Ogni pavè una volata. Ogni pavè una guerra. “Mors tua vita mea”.
L’unico modo per amare tutto questo è essere dei malati di classiche del nord, avere cioè una smisurata e perversa passione per le corse monumento del pavé – Fiandre e Roubaix su tutte. Solo così si può veramente apprezzare e capire il significato di pedalare da queste parti: ci vuole il giusto mood, il giusto approccio, la giusta determinazione e la giusta testardaggine, perché solo chi è più duro delle pietre ne esce vincitore.
Anche perchè alla Roubaix non si guarda in faccia a nessuno: per arrivare in fondo incolumi bisogna armarsi di tanta, tantissima cattiveria. Cattiveria nell’affrontare il pavé, nel maltrattare la propria bicicletta, e pure verso gli altri ciclisti che ti stanno attorno. Perché se stai davanti tieni il tuo passo e segui la linea migliore, e tocca semmai agli altri pedalare sullo sporco e sulle buche, sul fango e sulle pozzanghere. Ogni pavè una volata. Ogni pavè una guerra. “Mors tua vita mea”.
Roubaix for dummies (“non è una corsa per fighette”)
“L’esatta definizione dell’inferno” [Filippo Pozzato]
La Parigi-Roubaix è una corsa ciclistica che si svolge nel nord della Francia, in prossimità della frontiera belga, nel mese di Aprile. E’ famosa per i numerosi settori in pavé, caratteristica unica di questa corsa, ossia tratturi di campagna pavimentati con blocchi irregolari di pietra che rallentano la corsa e causano sobbalzi e vibrazioni provocando cadute, forature e rotture meccaniche. Ogni settore viene classificato per difficoltà in base a lunghezza, sconnessione e condizioni di mantenimento generale: i settori più difficili vengono identificati con cinque stelle e sono la Foresta di Arenberg, Mons-en-Pevele e il Carrefour de l’Arbre. Non di rado la prova viene poi flagellata dal maltempo, con un sensibile aumento della scivolosità del manto stradale per la presenza di fanghiglia e pozze d’acqua.
La versione cicloturistica dell’evento si tiene nel Giugno degli anni pari da Bohain-en-Vermandois a Roubaix, lungo un percorso di circa 212 chilometri dei quali 55 distribuiti su 32 tratti di pavé. E’ presente anche un percorso più corto di 120 chilometri con partenza da Arenberg. Ai ciclisti che concludono la prova viene consegnato un blocco di porfido, replica in scala ridotta del trofeo assegnato al vincitore della corsa professionistica.
Per la sua particolare durezza la Parigi-Roubaix è anche nota come“Inferno del Nord”, anche se in origine tale appellativo non venne associato alla difficoltà della corsa bensì alla desolazione e alla distruzione dei campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale attraversati dall’edizione 1919 della corsa.
La versione cicloturistica dell’evento si tiene nel Giugno degli anni pari da Bohain-en-Vermandois a Roubaix, lungo un percorso di circa 212 chilometri dei quali 55 distribuiti su 32 tratti di pavé. E’ presente anche un percorso più corto di 120 chilometri con partenza da Arenberg. Ai ciclisti che concludono la prova viene consegnato un blocco di porfido, replica in scala ridotta del trofeo assegnato al vincitore della corsa professionistica.
Per la sua particolare durezza la Parigi-Roubaix è anche nota come“Inferno del Nord”, anche se in origine tale appellativo non venne associato alla difficoltà della corsa bensì alla desolazione e alla distruzione dei campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale attraversati dall’edizione 1919 della corsa.
“Mentre ci dirigevamo a nord l’aria ha cominciato a puzzare di acqua marcia, di liquami, del fetore del bestiame in putrefazione. Gli alberi divennero ceppi consunti e anneriti, con i loro rami contorti spinti verso il cielo come le braccia paralizzate di un uomo morente. Il fango era ovunque. Nessuno sa chi per primo lo descrisse come “inferno”, ma non c'era sicuramente parola migliore per rappresentarlo. E fu così che apparve il giorno dopo sui giornali: la piccola corsa ciclistica aveva visto l'Inferno del Nord.” [Procycling]
Pavé asciutto o pavé bagnato?
“Una Roubaix senza pioggia non è una vera Roubaix. Meglio se c’è anche un po’ di neve” [Sean Kelly].
Per correre sul pavé servono tecnica ed equilibrio, lucidità e colpo d‘occhio. Nulla a che vedere con il ciclismo su strada, molto di più invece con ciclocross e mountain bike. E difatti i ciclocrossisti e i biker li riconosci subito, abili a destreggiarsi tra il viscido pavè ricoperto di fango o pedalare veloci sugli strettissimi corridoi di terra a bordo strada. E individui subito anche gli stradisti puri, decisamente più goffi e impacciati quando le ruote perdono aderenza.
In ogni caso, a pedalare sulle pietre ci si deve essere portati. Anche perché a terrorizzare più di ogni altra cosa non sono le pietre in sè ma l’incognita meteo: è dal 2002 che aspettiamo di assistere in TV allo spettacolo di una Roubaix “bagnata” e ci manca solo che - dopo dodici lunghi anni di attesa - a sguazzare nel fango tocchi proprio a noi. E infatti, tanto tuonò che piovve. Acqua a catinelle per tutta la notte fino a poco prima della partenza.
Quindi tocca correre sul viscido. Che contrariamente a quanto si possa pensare non è poi così male: l’acqua ammorbidisce il terreno e il fango riempie le fughe tra una pietra e l’altra, livellando la superficie e assorbendo gran parte delle vibrazioni. Certo, la bici tende a scappare da tutte le parti, ma con un po’ di dimestichezza nella guida si tratta di un problema secondario (vedasi biker e crossisti di cui sopra). Ci sono anche aspetti negativi, ovviamente: la linea da seguire è una sola, quella battuta lungo la “schiena d’asino” centrale, mentre se si è costretti a cambiare traiettoria (per un sorpasso, ad esempio) è bene farsi prima un bel segno della croce. E di percorrere la banchina non se ne parla: l’infangata è assicurata.
Col passare delle ore le condizioni vanno comunque via via migliorando fino ad incontrare “strade” secche e polverose già a metà percorso. E qui il discorso cambia: la parte centrale del pavé resta sempre la migliore (se non altro è in discrete condizioni rispetto alle zone più laterali, devastate dal passaggio delle ruote dei trattori) ma con l’asciutto gli scossoni aumentano vertiginosamente. Ecco allora che quei pochi centimetri di terra a bordo strada diventano preziosissimi. Almeno ci si risparmia l’effetto frullatore, ma bisogna restare sempre all’erta su cosa si nasconda tra i ciuffi d’erba: buche e pozzanghere sono in agguato, come anche sassi o addirittura interi blocchi di pietra sradicati dalla loro sede naturale.
Quindi, tornando alla domanda iniziale, è preferibile un pavé asciutto o bagnato? Nel primo caso la velocità è sicuramente superiore, ma nel secondo le vibrazioni risultano parecchio attenuate. Chi ha “manico” si troverà a suo agio sul bagnato, ma se ci si spaventa all’idea che le due ruote della bicicletta non seguano la stessa linea retta…. meglio respirare la polvere.
In ogni caso, a pedalare sulle pietre ci si deve essere portati. Anche perché a terrorizzare più di ogni altra cosa non sono le pietre in sè ma l’incognita meteo: è dal 2002 che aspettiamo di assistere in TV allo spettacolo di una Roubaix “bagnata” e ci manca solo che - dopo dodici lunghi anni di attesa - a sguazzare nel fango tocchi proprio a noi. E infatti, tanto tuonò che piovve. Acqua a catinelle per tutta la notte fino a poco prima della partenza.
Quindi tocca correre sul viscido. Che contrariamente a quanto si possa pensare non è poi così male: l’acqua ammorbidisce il terreno e il fango riempie le fughe tra una pietra e l’altra, livellando la superficie e assorbendo gran parte delle vibrazioni. Certo, la bici tende a scappare da tutte le parti, ma con un po’ di dimestichezza nella guida si tratta di un problema secondario (vedasi biker e crossisti di cui sopra). Ci sono anche aspetti negativi, ovviamente: la linea da seguire è una sola, quella battuta lungo la “schiena d’asino” centrale, mentre se si è costretti a cambiare traiettoria (per un sorpasso, ad esempio) è bene farsi prima un bel segno della croce. E di percorrere la banchina non se ne parla: l’infangata è assicurata.
Col passare delle ore le condizioni vanno comunque via via migliorando fino ad incontrare “strade” secche e polverose già a metà percorso. E qui il discorso cambia: la parte centrale del pavé resta sempre la migliore (se non altro è in discrete condizioni rispetto alle zone più laterali, devastate dal passaggio delle ruote dei trattori) ma con l’asciutto gli scossoni aumentano vertiginosamente. Ecco allora che quei pochi centimetri di terra a bordo strada diventano preziosissimi. Almeno ci si risparmia l’effetto frullatore, ma bisogna restare sempre all’erta su cosa si nasconda tra i ciuffi d’erba: buche e pozzanghere sono in agguato, come anche sassi o addirittura interi blocchi di pietra sradicati dalla loro sede naturale.
Quindi, tornando alla domanda iniziale, è preferibile un pavé asciutto o bagnato? Nel primo caso la velocità è sicuramente superiore, ma nel secondo le vibrazioni risultano parecchio attenuate. Chi ha “manico” si troverà a suo agio sul bagnato, ma se ci si spaventa all’idea che le due ruote della bicicletta non seguano la stessa linea retta…. meglio respirare la polvere.
Stelle (e pietre) a casaccio
“E’ come se avessero arato una strada sterrata ricoprendola con un mucchio di pietre lanciate da un elicottero. Ridicolo.” [Chris Horner]
Come già accennato, ogni settore di pavé è catalogato per difficoltà in base alla lunghezza, sconnessione e condizioni di mantenimento generale: l’unità di misura sono le stelle, in numero variabile da una a cinque. Il che farebbe pensare che esistano pavé facili, pavè medi e pavé difficili.
Nulla di più sbagliato. Di pavé facile, alla Roubaix, non ce n’è un solo metro. Più precisamente, la sua difficoltà oscilla dal “v-v-i-b-r-r-a-t-t-t-u-u-u-t-t-t-t-o-o-o-o-o” (una stella) al “quantomanca???” (due stelle), passando per il “machimelhafattofare” (tre stelle), fino ad arrivare al top con “datemidellamorfina” (quattro stelle) e il “facciotestamento” (cinque stelle).
La catalogazione in stelle risulta pure piuttosto bislacca, col risultato che un pavé sulla carta “semplice” (ad esempio Marc Madiot, 3 stelle, 1400 metri) si riveli decisamente più impegnativo di altri settori lunghi e complessi come quelli di Haveluy (4 stelle, 2500 metri) o Mons-en-Pevele (5 stelle, 3000 metri), dove magari la gran quantità di terra riportata dai mezzi agricoli contribuisce a “spianare” le buche tra una pietra e l’altra.
E pure quei fottutissimi Gruson e Hem, i “due stelle” finali che i vari Bulbarelli, Cassani, Pancani e compagnia bella ci hanno sempre spacciato per facilissimi, diventano una mezza agonia anche sul cordolo d’asfalto, talmente zeppo di buche e rattoppi che tanto vale continuare a centro strada.
Nulla di più sbagliato. Di pavé facile, alla Roubaix, non ce n’è un solo metro. Più precisamente, la sua difficoltà oscilla dal “v-v-i-b-r-r-a-t-t-t-u-u-u-t-t-t-t-o-o-o-o-o” (una stella) al “quantomanca???” (due stelle), passando per il “machimelhafattofare” (tre stelle), fino ad arrivare al top con “datemidellamorfina” (quattro stelle) e il “facciotestamento” (cinque stelle).
La catalogazione in stelle risulta pure piuttosto bislacca, col risultato che un pavé sulla carta “semplice” (ad esempio Marc Madiot, 3 stelle, 1400 metri) si riveli decisamente più impegnativo di altri settori lunghi e complessi come quelli di Haveluy (4 stelle, 2500 metri) o Mons-en-Pevele (5 stelle, 3000 metri), dove magari la gran quantità di terra riportata dai mezzi agricoli contribuisce a “spianare” le buche tra una pietra e l’altra.
E pure quei fottutissimi Gruson e Hem, i “due stelle” finali che i vari Bulbarelli, Cassani, Pancani e compagnia bella ci hanno sempre spacciato per facilissimi, diventano una mezza agonia anche sul cordolo d’asfalto, talmente zeppo di buche e rattoppi che tanto vale continuare a centro strada.
Pedalare sul pavé
“Se non hai gamba, questo è il posto peggiore in cui ti possa trovare” [Jo Planckaert]
Dopo un po’ lo capisci da solo: ogni pavé fa storia a sé. In sostanza, non sai minimamente cosa ti aspetta finché non ci sei sopra: solo allora scopri se farà male oppure no. Se il pavé è abbastanza livellato le braccia sentono solo fastidio, ma se la pavimentazione è irregolare, con le pietre ognuna ad un’altezza diversa e distanti le une dalle altre, allora si salvi chi può: il fastidio diventa vero e proprio dolore.
Il “colpo di pedale” diventa quindi fondamentale per ridurre le vibrazioni e accorciare l’agonia: una pedalata rotonda distribuisce la spinta in modo omogeneo mantenendo la bicicletta ben piantata al terreno, mentre un rapporto lungo (ma non troppo) garantisce una buona velocità di crociera che stabilizza ed equilibra l’andatura.
Il vero segreto per superare indenni il pavé è però la velocità: più si va veloci e più si “galleggia” sulle pietre. Più si galleggia e più è facile andare ancora più rapidi. Un circolo virtuoso da gestire con parsimonia per non finire in fuori giri. Ma anche un crudele e spietato circolo vizioso se applicato al contrario: se cala l’andatura aumenta la violenza dei sobbalzi, la velocità cala ancor di più e magari ci si ritrova ad annaspare zigzagando da un lato all’altro della strada.
Ed è così che comprendi – direttamente sulla tua pelle – come sia possibile che un chilometro di pavé in pianura faccia più selezione di tante salite asfaltate.
Il “colpo di pedale” diventa quindi fondamentale per ridurre le vibrazioni e accorciare l’agonia: una pedalata rotonda distribuisce la spinta in modo omogeneo mantenendo la bicicletta ben piantata al terreno, mentre un rapporto lungo (ma non troppo) garantisce una buona velocità di crociera che stabilizza ed equilibra l’andatura.
Il vero segreto per superare indenni il pavé è però la velocità: più si va veloci e più si “galleggia” sulle pietre. Più si galleggia e più è facile andare ancora più rapidi. Un circolo virtuoso da gestire con parsimonia per non finire in fuori giri. Ma anche un crudele e spietato circolo vizioso se applicato al contrario: se cala l’andatura aumenta la violenza dei sobbalzi, la velocità cala ancor di più e magari ci si ritrova ad annaspare zigzagando da un lato all’altro della strada.
Ed è così che comprendi – direttamente sulla tua pelle – come sia possibile che un chilometro di pavé in pianura faccia più selezione di tante salite asfaltate.
Un film già visto
”E’ un circo, e non voglio essere uno dei clown” [Chris Boardman]
Un rettilineo in leggera discesa, un passaggio a livello, e il gruppo che entra a sessanta all’ora in un tunnel verde dritto come un fuso. Bici che sobbalzano, cadute, corridori che serpeggiano a destra e a sinistra sperando in una via più scorrevole. L’inquadratura frontale e i ciclisti che sembrano praticamente fermi. La Foresta di Arenberg.
Curva a destra, casa in mattoni rossi sulla sinistra. Inizia il pavè. Curve in successione. Sinistra-destra-sinistra. Poi incrocio, curva secca a sinistra e drittone. L’attacco di Cancellara tra due ali di folla. Le bandiere con il Leone delle Fiandre. La vecchia taverna in lontananza. Il Carrefour de l’Arbre.
La Flame Rouge, il bivio “Autos-Coreurs”, e quella svolta secca a destra un po’ incerta. L’ingresso nello stadio del ciclismo con le curve sopraelevate e il pubblico in visibilio. L’ultimo giro, la campanella che suona, poi il traguardo. Il velodromo di Roubaix.
Chiedere a un patito di corse del pavé cosa significhi pedalare sulle strade della Roubaix, è come domandare a un appassionato di auto di guidare a Montecarlo, o a un calciofilo di fare due tiri a pallone al Maracanà.
E’ un’emozione unica, ma anche un gran divertimento. Te ne freghi della pioggia o del caldo, del fango o della polvere, vuoi solo pedalare su quel pavé che tanto hai desiderato. Attraversi luoghi così familiari pur non essendoci mai stato prima. Riconosci la curva, la casa, il cartello, l’incrocio, il passaggio a livello: davvero, sembra di essere catapultati dentro a un film visto più e più volte, in televisione, ogni seconda domenica di Aprile.
Eppure il nord della Francia sembra tutto uguale, così monotono e sempre uguale a sé stesso, tra campi coltivati dai quali spunta ogni tanto qualche piccolo paesino nel bel mezzo del nulla. Ma ha comunque un suo fascino: come le verdi colline e i dolci saliscendi della Piccardia illuminati dalle prime luci del mattino, o i fitti boschi verso Arenberg, o ancora le tantissime strette stradine che tagliano le immense distese di frumento.
E il pavé, che anch’esso potrebbe sembrare sempre lo stesso da qualsiasi parte lo si guardi, riesce comunque ad avere sempre una particolarità che lo distingue dagli altri. Sui settori di Templeuve c’è il mulino, al Pont Gibus il vecchio ponte ferroviario dedicato a Duclos-Lassalle, a Haveluy l’enorme pozzanghera in ingresso, al Buat un’inaspettata salita 7%. E ancora, le folli discese fangose di Troisville e Viesly, l’andirivieni di Cysoing, le curve di Pont Thibault e il monumento a Marc Madiot. Senza dimenticare Arenberg e il Carrefour de l’Arbre, due luoghi leggendari che hanno fatto la storia del ciclismo e che da soli valgono il prezzo del biglietto.
Curva a destra, casa in mattoni rossi sulla sinistra. Inizia il pavè. Curve in successione. Sinistra-destra-sinistra. Poi incrocio, curva secca a sinistra e drittone. L’attacco di Cancellara tra due ali di folla. Le bandiere con il Leone delle Fiandre. La vecchia taverna in lontananza. Il Carrefour de l’Arbre.
La Flame Rouge, il bivio “Autos-Coreurs”, e quella svolta secca a destra un po’ incerta. L’ingresso nello stadio del ciclismo con le curve sopraelevate e il pubblico in visibilio. L’ultimo giro, la campanella che suona, poi il traguardo. Il velodromo di Roubaix.
Chiedere a un patito di corse del pavé cosa significhi pedalare sulle strade della Roubaix, è come domandare a un appassionato di auto di guidare a Montecarlo, o a un calciofilo di fare due tiri a pallone al Maracanà.
E’ un’emozione unica, ma anche un gran divertimento. Te ne freghi della pioggia o del caldo, del fango o della polvere, vuoi solo pedalare su quel pavé che tanto hai desiderato. Attraversi luoghi così familiari pur non essendoci mai stato prima. Riconosci la curva, la casa, il cartello, l’incrocio, il passaggio a livello: davvero, sembra di essere catapultati dentro a un film visto più e più volte, in televisione, ogni seconda domenica di Aprile.
Eppure il nord della Francia sembra tutto uguale, così monotono e sempre uguale a sé stesso, tra campi coltivati dai quali spunta ogni tanto qualche piccolo paesino nel bel mezzo del nulla. Ma ha comunque un suo fascino: come le verdi colline e i dolci saliscendi della Piccardia illuminati dalle prime luci del mattino, o i fitti boschi verso Arenberg, o ancora le tantissime strette stradine che tagliano le immense distese di frumento.
E il pavé, che anch’esso potrebbe sembrare sempre lo stesso da qualsiasi parte lo si guardi, riesce comunque ad avere sempre una particolarità che lo distingue dagli altri. Sui settori di Templeuve c’è il mulino, al Pont Gibus il vecchio ponte ferroviario dedicato a Duclos-Lassalle, a Haveluy l’enorme pozzanghera in ingresso, al Buat un’inaspettata salita 7%. E ancora, le folli discese fangose di Troisville e Viesly, l’andirivieni di Cysoing, le curve di Pont Thibault e il monumento a Marc Madiot. Senza dimenticare Arenberg e il Carrefour de l’Arbre, due luoghi leggendari che hanno fatto la storia del ciclismo e che da soli valgono il prezzo del biglietto.
"Au Vèlodrome"
“Questa è la corsa più bella del mondo” [Theo de Rooij]
E alla fine arrivi al leggendario velodromo di Roubaix, con le lastre di cemento rosato e quelle curve sopraelevate inaspettatamente ripide. Tutto si conclude in un attimo. Ti guardi attorno, e ti rendi conto che questo luogo lo conosci molto bene. L’hai già visto in TV, ma non solo. E’ qualcosa di più.
L’hai osservato centinaia di volte, l’hai desiderato, hai sentito la sua presenza anche senza notarlo, fino a farlo diventare inconsapevolmente parte integrante della tua vita.
Già, quel quadro. “Au Velodrome”. Jean Metzinger raffigura Charles Crupelandt che vince la gara di casa. Correva l’anno 1912, albori del futurismo. Velocità, tecnologia, progresso, innovazione… alla Roubaix, la corsa più anacronistica di tutti i tempi.
Un secolo dopo quel quadro ce l’hai appeso in camera. E’ l’ultima cosa che vedi prima di addormentarti e la prima quando ti svegli. E finalmente realizzi cosa sia stata questa Parigi-Roubaix.
Oggi non hai raggiunto un obiettivo, non hai vinto una sfida, e nemmeno compiuto un’impresa. Molto più semplicemente, hai realizzato un sogno. Merci, Roubaix!
L’hai osservato centinaia di volte, l’hai desiderato, hai sentito la sua presenza anche senza notarlo, fino a farlo diventare inconsapevolmente parte integrante della tua vita.
Già, quel quadro. “Au Velodrome”. Jean Metzinger raffigura Charles Crupelandt che vince la gara di casa. Correva l’anno 1912, albori del futurismo. Velocità, tecnologia, progresso, innovazione… alla Roubaix, la corsa più anacronistica di tutti i tempi.
Un secolo dopo quel quadro ce l’hai appeso in camera. E’ l’ultima cosa che vedi prima di addormentarti e la prima quando ti svegli. E finalmente realizzi cosa sia stata questa Parigi-Roubaix.
Oggi non hai raggiunto un obiettivo, non hai vinto una sfida, e nemmeno compiuto un’impresa. Molto più semplicemente, hai realizzato un sogno. Merci, Roubaix!